Ho letto il romanzo “L’ora di greco” di Han Kang, traduzione di Lia Giovitti, Adelphi. A Seoul, a un corso serale di greco antico, il professore è un quarantenne che sta perdendo la vista per una malattia ereditaria; tra gli studenti c’è una donna che ha perso l’uso della parola. Lei, provata da un matrimonio finito conclusosi con l’affidamento del figlio all’ex-marito, è refrattaria a ogni possibilità di comunicare col mondo. Quando però il professore si trova in un momento di difficoltà, è lei ad aiutarlo, a essergli accanto.
“L’ora di greco” è un romanzo scritto con uno stile poetico, a volte enigmatico. Si alternano capitoli scritti in prima persona, in cui l’io-narrante è il professore, a capitoli scritti in terza persona, dal punto di vista della donna. Centrale è il tema del linguaggio: il professore da bambino ha seguito la famiglia in Germania e ha dovuto apprendere una nuova lingua; la donna non riesce più a parlare e sceglie di imparare il greco, una lingua “fredda e dura come una colonna di ghiaccio. Una lingua di un’autosufficienza estrema, in cui un vocabolo non ha bisogno di combinarsi con nessun altro per essere usato. Una lingua che fa aprire bocca solo dopo che il rapporto di causa-effetto e l’atteggiamento siano stati irrevocabilmente decisi”. Entrambi i protagonisti soffrono di un disturbo che impedisce loro di mettersi in relazione agli altri in modo normale, hanno alle spalle relazioni concluse, finite male. Non è però la solita storia di due persone sole che si incontrano. L’originalità è data dallo stile, dalle riflessioni sul linguaggio, sulla lingua greca. Alcune pagine rimangono per me enigmatiche.