Ce lo spiega Ottessa Moshfegh nel suo romanzo “Il mio anno di riposo e oblio”, traduzione di Gioia Guerzoni, Feltrinelli.
Nel 2000 a New York in un bell’appartamento nell’Upper East Side vive la ventiseienne protagonista: non ne sapremo mail il nome, è ricca, laureata in storia dell’arte, lavora in una galleria d’arte, ma disprezza quel mondo snob, è innamorata di un uomo più grande di lei che la tratta come un zerbino. Ha perso pochi anni prima entrambi i genitori: il padre, professore universitario, è morto di cancro, la madre si è suicidata poco dopo. La protagonista vuole fare tabula rasa del suo passato, eliminare i dolorosi ricordi e decide che l’unico modo possibile per farlo è dormire. Dormire per un anno. Allora consulta le pagine gialle e a caso sceglie una psichiatra, la dottoressa Tuttle, da cui si fa prescrivere, millantando disturbi vari, pesanti psicofarmaci, che le permettono di dormire. Questa terapia del sonno le impedisce di svolgere in modo efficiente il suo lavoro nella galleria d’arte e viene licenziata, cosa che non le dispiace affatto, tanto grazie all’eredità dei ricchi genitori no ha preoccupazioni economiche. Bene, si può dedicare totalmente a questa terapia del sonno, a questa ibernazione, a questo letargo. Reclusa nel suo appartamento, talvolta riceve le visite della sua unica amica, Reva, che vede in lei il tipo di donna che vorrebbe essere e che nega i problemi di bulimia di cui soffre fingendo ottimismo e serenità. L’unico passatempo con cui la protagonista riempie i momenti di veglia sono le videocassette di film soprattutto quelle in cui recitano Harrison Ford e Whoopi Godlberg. A un certo punto, poiché sotto l’effetto dei farmaci esce di casa e non si ricorda quando ritorna di quello che ha compiuto, vuole rendere questo suo letargo più estremo: vuole un “carceriere” che la tenga chiusa e che le porti i viveri e ciò che le consente di esistere. Trova questo carceriere in uno degli artisti della galleria d’arte per cui lavorava e che disprezzava, e addirittura da questa esperienza l’artista trae l’ispirazione per una mostra di successo. Alla fine di questo letargo, nel mese di giugno, la protagonista si sente libera dal passato, dal dolore. Ne è simbolo la decisione di vendere la casa dove avevano abitato i suoi genitori e di liberarsi degli oggetti che le ricordavano di loro.
Questo romanzo mi è piaciuto per l’idea che fa partire l’azione: andare in letargo per un anno, lasciare perdere tutti, tutto e sparire in letargo in casa, dormendo tutto il tempo. Mi è piaciuto entrare nella vita di questa quasi trentenne, privilegiata, che mette in luce gli aspetti falsi dell’ambiente a cui appartiene e frequenta per lavoro. Mi piace il modo in cui mette in ridicolo le persone che si atteggiano, che si danno un tono che credono di essere fighi solo perché indossano un certo tipo di scarpe, ascoltano un certo tipo di musica, guardano un certo tipo di film. Certo, della protagonista non mi è piaciuta l’assenza di empatia verso l’amica Reva. Eppure alla fine la protagonista prova per lei ammirazione perché Reva riesce a fare quello che lei ha cercato di fare ed essere: “essere un essere umano che si tuffa nell’ignoto, ed è perfettamente sveglia” Sveglia è l’ultima parola del romanzo.
Riporto alcuni brani.
pagina 24: Non so indicare un evento specifico che mi aveva portato alla decisione di andare in letargo. All’inizio volevo solo un po’ di calmanti per cancellare pensieri e giudizi perché con la loro raffica continua facevo fatica a non odiare tutti e tutto. Pensavo che la vita sarebbe stata più tollerabile se il mio cervello fosse stato più lento nel condannare il mondo che mi circondava.
pagina 35 “Fighetti che leggevano Nietzsche in metropolitana, o Proust, o David Foster Wallace, che annotavano pensieri geniali su piccoli taccuini Moleskine neri. Pance da birra e gambe secche, felpa con il cappuccio, caban blu marino o parka verde militare, scarpe New Balance, berretto di lana, borsa di tela (…)”
pag. 38 descrive l’ambiente e il suo ruolo nella galleria d’arte: “Da Ducat l’arte avrebbe dovuto essere sovversiva, irriverente, scioccante, ma era solo merdosa controcultura in scatola, “roba punk però con i soldi” che al massimo ti faceva venire voglia di svoltare l’angolo e comprare uno di quei capi di Comme des Garcons che non stanno bene a nessuno. Natasha mi aveva scritturato per il ruolo di sottoposta annoiata, e in genere il minimo sforzo che mettevo nel lavoro era sufficiente. Ero una prelibatezza per hipster. Arredamento alla moda. Ero la stronza che stava seduta alla scrivania e ti ignorava quando entravi in galleria, una bellezza con il broncio perenne che indossava capi all’avanguardia incomprensibilmente trendy.
pag 41: infelicità della protagonista: “Ma uscire da quel sonno era straziante. Tutta la mia vita mi passava davanti agli occhi nel modo peggiore possibile, la mente si riempiva di tutti i ricordi più patetici, ogni piccola cosa che mi aveva portato fin lì. Cercavo di ricordare qualcos’altro – una versione migliore, una storia felice magari, o semplicemente una vita ugualmente patetica ma che mi avrebbe almeno offerto qualche digressione confortante – , ma non funzionava mai. Anzi, le uniche volte che piangevo era quando venivo strappata da quel nulla, quando scattava la sveglia del mio cellulare”.
pagina 87: Potevo immaginare me stessa, il mio passato, la mia psiche, come un camion della spazzatura pieno di rifiuti. Il sonno era il pistone idraulico che sollevava il cassone del camion (…)”
pag. 171 chiedendomi se un giorno sarei stata come lei, un bellissimo pesce in uno stagno (…) che gira e rigira in cerchio e sopravvive al tedio solo perché la mia memoria può contenere unicamente quello che rimane impresso negli ultimi minuti della vita, perché dimentico costantemente i pensieri”